Diario di un soldato sul Carso e in Serbia 1916-1919 scritto da Michele Baratto, originario di Crespano del Grappa, ordinato e proposto da Antonio Tino Scremin. - Editore Moro - Cassola (VI) 1989

  La storica di area trentina e ladina Luciana Palla scrive “La guerra la fanno i soldati, ma questi sono uomini, non automi, con i loro sentimenti, affetti, paure. La figura del soldato viene spesso fatta coincidere con l’eroe, o almeno con “colui che compie il proprio dovere per la patria”. Ma il concetto di patria per la maggior parte dei soldati era un qualcosa di astratto, per molti di essi il senso patriottico di cui parla tanto la retorica di guerra non esisteva: la patria era la propria terra, la propria “Heimat” [casa]. Chi è veramente l’uomo che sta dietro il soldato, e di cui si parla sempre così poco? E qual è la sorte dei prigionieri, degli internati, dei disertori, di tutti quelli cioè che si discostano, volenti o nolenti, dalla figura del soldato-eroe?

I monumenti ai caduti esaltano un soldato astratto, poco reale, celebrano gli ideali della virilità, della giovinezza spezzata per un grande ideale, garantiscono l’immortalità a chi è caduto combattendo per la patria. Ma se noi leggiamo i diari dei nostri soldati, le loro lettere, emerge l’immagine non di eroi, ma di uomini normali, con le loro paure, debolezze, rimpianti, con il rifiuto di quella guerra, con il desiderio spesso di uscirne in ogni modo. Uomini quindi in tutto per tutto, non l’ideale astratto presentato dalla retorica di guerra.” (Dagli atti del convegno “la Grande Guerra: storia e memoria - Feltre 1 settembre 2001” a cura di Marco Rech, Comune di Seren del Grappa (BL) - Fondo europeo FESR, dicembre 2001).

Il diario del fante Michele Baratto, nella narrazione curata da Antonio Tino Scremin, non fa che confermare l’analisi della ricercatrice Luciana Palla. Il giovane calzolaio di Crespano le prova tutte pur di essere riformato a causa di un'ernia, ma viene giudicato abile al servizio militare. Continua poi a “marcare visita” nell’intento di imboscarsi nelle retrovie, ma non gli riesce perché non è sufficientemente scaltro e spregiudicato e alla fine viene inviato sul fronte del Carso, sull’Hermada, con il 259° reggimento di fanteria. Baratto diventa così il “soldato massa” della fanteria, “cristianamente rassegnata” come la descriverà Curzio Malaparte, e si affida all’unica protezione possibile, alla sua Madonna del Covolo che pregherà intensamente fino al rientro in Italia dalla prigionia. Il nostro fante è un mite, terrorizzato dal dover fronteggiare gli austriaci faccia a faccia durante gli assalti, ma non ha la forza di dileguarsi dalla guerra.

Durante il riposo del reggimento a Sant’Antonio di Aquileia, recatosi a Pieris per un incarico, incontra dei soldati delle salmerie “… i cosiddetti figli di papà che con le carrette andavano a Cervignano a fare la spesa. Uno mi conosceva e mi disse: “Baratto, scappa in Italia, vai a casa”. Dimenai la testa. Non era possibile con tutti i posti di blocco che c’erano e poi non avrei avuto il coraggio di farlo”. La notte del 6 settembre 1917 viene preso prigioniero, fortunatamente in maniera incruenta, e avviato in un campo di concentramento in Serbia. Qui la testimonianza è inconsueta perché viene impiegato in un laboratorio di calzoleria dove le ruberie sono la regola per sopravvivere alla fame, sia a opera dei prigionieri che delle guardie, molte bosniache, con le quali, spesso, queste azioni di “esproprio proletario” si svolgono in associazione. Tutti poveri uomini, senza distinzione di nazionalità, ugualmente coartati alla guerra.

Il santuario della Madonna del Covolo e l'abitato di Crespano del Grappa visti dalla mulattiera dell'Ardosetta.
Foto di Franco Tiveron

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